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Approfondimenti  »  Intervista Bill Walton (traduzione)


Intervista Bill Walton (traduzione)   di Marcello Ciozzani   |   Pubblicato il 05/04/2016

INTERVISTA A BILL WALTON TRASMESSA SU THE VERTICAL PODCATS WITH WOJ
Traduzione di : Marcello Ciozzani

Oggi, amici di Celtics.it, andiamo a scuola. Oggi ci serviamo dell’intervista del celebre giornalista di Yahoo! Sports, Adrian Wojnarowski, con il leggendario Bill Walton. Bill, vincitore del titolo dell’86 con i Celtics, non solo ci racconta la sua personale avventura, ma ci apre degli spiragli su alcune pagine della storia recente degli Stati Uniti, oltre a regalarci, verso la fine di questa lunghissima interivsta, un aneddoto da pelle d’oca sul patriarca della dinastia celtica: Red Auerbach.

L’intervista fa parte del podcast della trasmissione The Vertical con Adrian Wojnarowski, andata in onda il 23/03/2016, che trovate in versione intergrale ed in lingua originale a questo link.

NOTA: Questa vuole essere solo una traduzione da condividere con chi ha piacere nel leggere il racconto. Tutti i diritti sono di proprietà di Dgital Media.


Minuto 1:11
Adrian Wojnarowksi (AW): Ciao a tutti e benvenuti ad una nuova edizione di The Vertical podcast. Oggi, qua con noi, uno dei 50 migliori giocatori di tutti i tempi, Hall of Famer ed autore del nuovo libro “Back from the dead”, che per inciso è bellissimo...
Bill Walton (BW): Ciao, sono Bill e sono orgoglioso di essere qua con voi oggi. Bello vederti, ed essere qua in questo studio. Fa un po’ freddo per me, essendo un ragazzo da spiaggia, ma va bene così.

AW: Ovviamente la voce che sentite è di Bill Walton. Bill, voglio iniziare dal tuo libro, “Back from the dead”, pubblicato di recente, che ho letto praticamente tutto e voglio leggere un passaggio dal Capitolo 1, Estate 2009:”Non ce la faccio più, mi fa troppo male. Perchè dovrei continuare ad andare avanti? Sono stato male per così tanto tempo che ormai non ho motivo per credere che domani sarà un giorno migliore. Se avessi una pistola la userei...”
BW: Si tratta del punto più basso della mia vita, fatta di ascese di un certo tipo alla vetta, per poi cadere in picchiata a causa di problemi fisici. Quello è stato il momento più duro ed oscuro della mia vita. Sette anni orsono sono stato operato alla colonna vertebrale in un momento di scoramento, incapacità di reagire, mancanza di stimoli, devastazione e profonda tristezza. Questo libro parla proprio di questo: della speranza e della tristezza, dei successi e dei fallimenti e della vita e la morte. Sono stato su questo palco, non quello di The Vertical di Yahoo, ma quello della notorietà da quando avevo 17 anni ed ora ne ho 63. Ho fatto parte di tante bellissime cose, ma anche di momenti bui tali da farti seriamente domandare se valga la pena di continuare perchè è troppo, ed il dolore è così debilitante da porti tutti questi interrogativi, ma fortunatamente il dolore è scomparso.

AW: Hai avuto questi infortuni molto invasivi alla spina dorsale, che sono il risultato di precedenti problemi ai piedi, alle caviglie, alle ginocchia... credo che tu sia stato sottoposto a 37...
BW: 37 interventi di natura ortopedica. Ma tutto è nato a causa di una malformazione congenita e non ne avevo alcuna idea, anzi pensavo che fosse del tutto normale per una pratica come la mia avere dei dolori simili ai piedi, ed eccomi qua, a 17 anni, mentre inseguo il sogno della mia vita: il basket era la mia vita, il gioco la mia religione, la palestra la mia chiesa ed era un santuario dove tutto mi riusciva. La scuola e l’attività fisica erano le cose che mi riuscivano naturali, mentre le difficoltà venivano dalla salute, dal punto di vista ortopedico. Il tutto è risultato in una catena interminabili di fratture da stress che hanno marchiato perennemente la mia carriera. Considera: 14 anni nella lega e ho perso circa i 2/3 del tempo per infortunio. Quando avevo 14 anni, ero in palestra e stavo giocando con gente più vecchia di me, avranno avuto 30 anni e stavo andando alla grande e questo non piaceva a loro, così che ad un certo punto tornando a terra in un contatto mi rompo il ginocchio e l’infortunio avrebbe di certo richiesto un intervento ed eravamo nel 1967 ed il medico non aveva alcuna idea sul da farsi. Mi ha solo detto: ”Bill, non so che fare. L’unica cosa che ti suggerisco è: vai a casa, sdraiati a letto per tre mesi” e dopo 3 mesi mi alzo e sono più alto di 17 centimetri. Poi quando avevo 21 anni ed ero ad UCLA e stavo eseguendo una giocata sopra il canestro ed ero in aria e considera che eravamo fortissimi e non avevamo perso una partita in 5 anni ed arriva questo tizio avversario che in un atto di pura violenza e vigliaccheria arriva dall’altra parte del campo e mi toglie la gamba d’appoggio, facendomi rivoltare in modo che cadessi dritto dritto sulla mia schiena su quello che era la grande novità del tempo, ossia il pavimento di tartan, che va bene solo per farci atterrare gli aerei, ed in pratica quel giorno mi rompo due ossa della colonna vertebrale.
Quindi in pratica, mi ritrovo con queste premesse terribili: piedi malmessi, gambe compromesse e questo pesante infortunio alla colonna. Il tutto in un mondo costruito per bambini dell’asilo perchè non sono mai riuscito a stare in piedi correttamente, sto scomodo in macchina, sto scomodo in aereo e sono sempre in giro da quando ho 17 anni ed alla fine la mia colonna mi ha fatto pagare il prezzo: viaggiavo 600.000 miglia all’anno, ero fuori casa fino a 283 giorni all’anno e alla fine la mia colonna mi ha abbandonato lasciandomi questa sensazione che mi ha letteralmente sopraffatto, perchè non riesci a mangiare, dormire e ti ritrovi in questo limbo dove ti rendi conto che non ha più senso vivere perchè niente funziona, niente va a posto ed il dolore ti controlla completamente e così pensavo che mi sarei ucciso, quando il mio amico di lunga data Jim Grey ha trovato il mio dottore, Steve Garfin, UC San Diego, il quale ha trovato un’azienda di strumentazione medica la quale con un team di pionieri nella ricerca sull’equipaggiamento, le tecniche operatorie, etc. ha lavorato per portare un miglioramento nella chirurgia spinale ed eccomi qua, sono senza dolore, non sono costretto all’assunzione di farmaci, non sapevo affatto cosa fosse la vita senza il dolore alla schiena e sto vivendo questo miracolo ed eccomi qua, nel tuo studio, nel tuo ufficio con un libro nuovo di zecca.
Non avrei potuto fare tutto ciò senza l’aiuto di tantissime persone. So perfettamente bene che non avrei mai potuto coronare i miei sogni senza i sacrifici di tante persone a cominciare da questo progetto con Simon & Schuster, la casa editrice numero uno al mondo, e così come i miei allenatori, i miei compagni di squadra e mia moglie ad un certo punto della loro vita hanno scommesso su di me ed eccomi qua, curiosamente in una situazione che richiama molto quello che è stato un mio percorso di vita basato sulle persone con le quali legarti ed accoppiarti nella vita, che fossero John Wooden ad UCLA, la NBA, i network televisivi per i quali ho lavorato CBS, NBC, ESPN, ABC, Turner, Fox ed ora Simon & Schuster. È veramente un onore essere con i migliori ed è esattamente quello che ho sempre cercato di fare: stare con i migliori.

AW: Per le persone che ti conoscono da tempo è facile associare la tua persona alla passione ed all’amore per il basket. Al contempo, l’associazione avviene anche con una grande sofferenza fisica. Come è stato possibile che il tuo amore e la tua gioia nell’approcciarti al gioco non siano state macchiate dal grande dolore provato, perchè ogni sera in cui ti presentavi sul campo c’era sempre una componente di dolore...
BW: Era il desiderio di fare parte di qualcosa di speciale. Ho avuto la fortuna di aver fatto parte di tre delle più grandi squadre di sempre-escludendo la squadra dell’High School che era comunque buona: gli UCLA Bruins, abbiamo iniziato 46 anni orsono ed il nostro record rimane imbattuto; i Portland Trail Blazers, siamo la squadra più giovane ad oggi ad aver vinto un titolo NBA, dove il più anziano aveva 24 anni, e poi il mio sogno d’infanzia: i Boston Celtics. Bill Russell era il mio idolo sia sul campo che fuori dal campo. Avere l’opportunità di poter giocare all’ombra della sua maglia ritirata è stato eccezionale. Oltretutto, considera che ho trascorso 6 anni di carriera cestistica con i Clippers e quindi so che differenza passa tra il top ed il livello più basso. Sai, il basket è il gioco perfetto: tutto ciò che devi fare è aspettare per la palla a due e nessuno ti può fermare e dirti cosa puoi fare o non puoi fare. Tutto questo è stato alquanto sorprendente per me che da bambino ero molto timido, spaventato dalle pubbliche relazioni perchè non riuscivo a parlare. Quindi per me che sono stato balbuziente per una vita e che non riusciva a veicolare i propri sentimenti e le proprie emozioni, ero lì ed avevo l’opportunità di poter inseguire il mio sogno sportivo. A questo aggiungi i miei genitori, i migliori genitori del mondo, ma senza alcun interesse allo sport di alcun tipo. I miei genitori si occupavano di arte, letteratura, musica...

AW: La persona più rilevante che hai fatto conoscere a tuoi genitori dev’essere stata David Halberstam (NDR- giornalista, saggista americano)...
BW: Sì dev’essere o David Halberstam o Paul Connett (NDR-scienziato statunitense). In ogni caso, io vivevo a 10 minuti da casa dei miei. Sono un ragazzo di San Diego e i miei vivevano sul lato nord di Balboa Park, ma la mia casa di famiglia dove vive ancora mia madre (mio padre è mancato 13 anni fa) era a 10 minuti da casa mia: David stava intervistando me per “Breaks of the Game” e mi disse che voleva intervistare i miei genitori ed allora gli dico che va bene, che abitano a 10 minuti da dove eravamo, gli do il numero di telefono e l’indirizzo. Li chiamo e dico: ”Papà, mamma, il mio amico David vuole farvi un intervista” e loro sono d’accordo. Lui arriva, si siede, inizia ad intervistarli ed è solo in quel momento che realizzano che ad intervistarli è David Halberstam e vanno un po’ fuori di testa. Credo sia stata l’unica volta nella loro vita in cui erano impressionati dalle mie conoscenze.

Pausa pubblicitaria.

Minuto 13:34
AW: Bill, il tuo primo viaggio a New York avvenne da diplomando...
BW: Corretto, nel 1970. La primavera del 1970.

AW: Ricevi una telefonata dal Colonnello Al Fisher per fare un provino per quella che era sostanzialmente la selezione nazionale. Cosa è successo quando sei arrivato a NY? Hai dovuto lasciare la scuola.
BW: Ero totalmente impreparato. Ho dovuto lasciare la scuola con i miei genitori che erano totalmente contrari e così come il mio Preside. Ma avevo questa opportunità e volevo inseguire il mio sogno. Avevo terminato il torneo liceale e sapevo che sarei andato ad UCLA, avevamo giocato le finali, ero stato lontano da casa, da un mio lontano parente in South Carolina ed erano successe un mucchio di cose assai particolari e appena tornato dal South Carolina ricevo questa chiamata che mi ha cambiato la vita. A quel tempo non ero mai stato a New York, mai visto una metropolitana, mai visto dei grattacieli; oggi San Diego è la ottava città più grande d’America, ma allora era una cittadina di mare con palazzi bassi ed è ciò che ci piaceva all’epoca. Così, vengo da queste parti ed alloggio in questo posto chiamato Fort Hamilton a Brooklyn, alcune persone mi portano in giro con la metropolitana per New York, ed inoltre devo farmi il passaporto per andare a giocare il campionato mondiale in Yugoslavia.
All’epoca avevo 17 anni, mentre tutti gli altri ragazzi erano sotto le armi ed erano tutti sotto la giurisdizione di questo personaggio, il colonnello Al Fisher dell’esercito degli Stati Uniti che era la quint’essenza della malvagità. Questa esperienza da 17enne è stata al contempo la più brutta e la più bella della mia vita perchè amavo il basket con tutte le mie forze ed era la mia ispirazione nella vita. Penso al mio primo coach, Chick Hearn, la voce dei Lakers, uno dei più grandi cronisti di sport e John Wooden (NDR-leggendario coach dei Bruins di UCLA). Tutte queste persone con il loro atteggiamento così positivo, così spensierato, così volto a godersi questo lato della vita si contrapponevano a questo tizio, Al Fisher, il quale faceva sembrare sostanzialmente Bob Knight (NDR- coach icona di Indiana University) Madre Teresa. Questo tizio era la quint’essenza del male, sempre ubriaco, sboccato, con un atteggiamento ostile, negativo, aggressivo ed in pratica era l’antitesi di tutto ciò in cui credevo non soltanto nello sport, ma nella vita. Quindi, per noi di quella squadra e non riesco a ricordarmi tutti ma farò un breve elenco di quei giocatori: Tal Brody, Art Wilmore, Kenny Washington, Mike Silliman, Garfield Smith, Darnell Hillman, Stan Isaac, Ben McDonald questi ragazzi vengono da me ogni giorno...

AW: Tu avevi 17 anni vero? Questi che hai citato erano uomini più grandi di te.
BW: Esatto ed il secondo più giovane aveva 24 anni. Quello era un periodo nel quale tutti questi ragazzi erano sotto le armi per via di quello che stava avvenendo in Vietnam e tutta la follia che ne derivava. Quindi, oltre a quello, c’era questo coach, Al Fisher, il quale iniziò i provini dicendo letteralmente:”Qui ci sono 25 figli di p***ana!” ed, Adrian, credimi, la matematica era il mio forte, ma ti posso assicurare che almeno il 50% delle cose che diceva lui non potresti mai andarle a dire in televisione o potresti ripeterle davanti ai tuoi figli. E dunque ero lì con questo tizio che per la maggior parte del tempo bestemmiava, urlava, faceva il matto, spingeva, spintonava e quant’altro. Era assolutamente la cosa più assurda da un punto di vista del coaching ed io sono stordito. In tutto questo c’erano Kenny Wahington, Tal Brody, Art Wilmore, Darnell Hillman i quali venivano da me ogni giorno, mi mettevano un braccio attorno al collo e mi dicevano: ”Stai tranquillo, vedrai, John Wooden non è affatto così”.
In pratica Al Fisher iniziò i provini il primo giorno dicendoci: ”Ragazzi, sarò il vostro responsabile e farete 3 settimane di allenamenti ed alla fine di questi allenamenti sceglierò 12 di voi che rapresenteranno gli Stati Uniti ai Mondiali in Yugoslavia, mentre per il tredicesimo di voi sarà il sottoscritto che avrà il piacere di firmare il foglio di via per farlo tornare dritto in Vietnam” e mentre dice questa cosa si volta ed estrae la sua fiaschetta per farsi un altro goccio ed io mi guardo attorno spaesato ed atterrito, oltre al fatto che per le 3 settimane successive ognuno andò oltre il proprio limite a causa di questa spada di Damocle che pendeva sulle nostre teste: in pratica, se non giocavi sufficientemente bene o non ti impegnavi a sufficienza, andavi in Vietnam e sapevamo bene che chi andava in Vietnam non tornava indietro.
AW: Però al contempo, tu avrai anche pensato:”Ho 17 anni, vado ad UCLA, non può farmi questo!”. Fino a che punto si estendeva il suo potere?
BW: Oh, credimi, lui aveva il potere. Aveva un potere inimmaginabile su tutti noi. Anni dopo, anche perchè siamo rimasti sempre in contatto tra giocatori dopo quell’esperienza, concludemmo che avremmo potuto vincere in qualche modo il Mondiale anche senza allenatore, solamente organizzandoci tra di noi. Purtroppo lui era una persona talmente disgustosa ed una tale forza malvagia che alla fine non fummo in grado di ottenere ciò che è l’essenza dello sport di squadra e del basket in particolare. Questa esperienza mi ha profondamente segnato.
AW: Bill, nel libro racconti che non ti ha mai fatto giocare. Hai trascorso 3 mesi in giro per l’Europa per il Mondiale e non hai mai avuto l’occasione, anzi, ce l’hai avuta ma non nel modo in cui ti aspettavi di giocare.
BW: In pratica viaggiavamo ogni giorno. La mattina ci mettevamo in moto, raggiungevamo la meta, pranzavamo, poi c’era una grande cerimonia di benvenuto nel pomeriggio e la sera giocavamo un’amichevole. Questo tutti i giorni ed io non mettevo mai piede in campo. Quindi, non solo questo tizio continuava ad urlare, insultare e renderci la vita impossibile ogni giorno, ma non mi faceva mai giocare. Stavo provando del risentimento, ero arrabbiato per questa cosa. Succede poi che un giorno a pranzo il coach viene da me, tutto questo mentre eravamo a Zara perchè avremmo giocato una partita amichevole, e mi dice: ”Guarda, la nazionale Yugoslava ha preso tutti i lunghi della squadra locale per la loro selezione. Ti dispiacerebbe giocare per loro?”. Io lo guardo con occhi increduli e dico: ”Mi andrebbe, eccome, di giocare per loro!”.
Quindi quella sera gioco per loro ed io non parlavo una parola di yugoslavo, nè loro sapevano una parola di inglese e mi ritrovavo con questa maglia da 12enne, ma nel momento in cui le ostilità iniziarono entrai subito in partita e quella sera ero inarrestabile. A quel punto, devi sapere che Fisher, non solo viveva una vita dissoluta, ma era anche un insegnante di vita dissoluta. Di conseguenza, una delle sue priorità era di mostrare alla sua squadra come fare male fisicamente all’avversario: come usare le ginocchia, i fianchi, la schiena, le spalle per infliggere dolore fisico all’avversario. Tutto questo, però era contrario alla mia filosofia di gioco e di vita. Ma quel giorno, credimi Adrian, ho messo in pratica ogni singola malignità che Fisher mi aveva insegnato e gli arbitri non me ne fischiarono una. La facevo franca ogni volta. Alla fine quella partita, nonostante il mismatch favorevole alla nazionale americana, è finita punto a punto, anzi forse li abbiamo portati anche all’overtime. A fine partita tutto il pubblico si riversò sul parquet e mi sollevò in aria, strappò la mia maglia e mi portarono in trionfo per le vie della città, gridando il mio nome di continuo. È stata una sensazione incredibile, quel giorno. Il giorno dopo, però, ritornai dritto in panchina e non giocai mai più un minuto per quella selezione, sebbene ancora oggi sia stato l’unico liceale ad aver fatto parte della selezione americana.

Pausa pubblicitaria.

Minuto: 23:45
AW: Dopodichè vai ad UCLA, ma c’è un passaggio nel tuo libro il quale, devo dire, mi incuriosiva ancora prima di leggerlo, ossia quello relativo alle Olimpiadi del 1972 per le quali la tua decisione di non fare parte del gruppo della selezione nazionale, venne vissuto come una presa di posizione politica...
BW: Al tempo tutto era politico. Qualsiasi cosa era una presa di posizione politica, come lo è oggi. Viviamo in un mondo politico, dove non c’è spazio per l’amore come direbbe il nostro amico Bob Dylan...

AW: Comunque, per la cronaca, stiamo facendo riferimento alla squadra olimpica di Monaco 72. Sappiamo ciò che accadde là. La squadra di Doug Collins,  Mike Bantom e Tom McMillen. (NDR- Per i più giovani, la finale Olimpica del 1972 rappresenta una delle partite più controverse della storia della pallacanestro con le fasi finali oggetto di un lunghissimo contenzioso, oltre a rappresentare la prima sconfitta in campo olimpico per il Team USA). In ogni caso, i selezionatori venennero da te e John Wooden.
BW: Vennero da me ed io rifiutai. Anche perchè all’epoca c’era sempre qualche piano, qualche elucubrazione, qualche trama nascosta. Era un continuo via vai di persone che venivano e dicevano: ”Abbiamo un piano meraviglioso per te...”. Ma a me, tutte quelle cose non interessavano. Insomma, un giorno, John Wooden viene da me e mi dice: ”Bill, c’è un incontro e vogliono parlare con te” ed io rispondo: ”Coach, non posso, ho lezione” e lui “Guarda, Bill è una cosa importante, devi esserci” ed io capisco che è la Nazionale.
Dunque arrivo lì e so che ci sono i selezionatori. Loro mi chiedono di giocare per loro ed io dico che è ok, però preciso che non ho voglia di fare i provini perchè li ho fatti due anni prima, ero stato scelto e non me la sento di fare tre settimane di prove e poi innumerevoli amichevoli. Mi sarei presentato tre settimane prima, in perfetta forma, avrei giocato per loro ed una volta finita la manifestazione olimpica, sarei tornato al college dove dovevo completare il mio lavoro sia come studente sia come membro degli UCLA Bruins. Non volevo rovinare tutto quello per il quale stavo lavorando, anche perchè si ha una simile opportunità solo una volta nella vita. Ma a quel punto dissero di no. Io mi alzai, ringraziai, rifiutai, me ne andai e non ci pensai mai più.

AW: Come hai gestito questa cosa con i membri della squadra olimpica? Hai mai percepito frustrazione o risentimento da parte loro? Perchè si pensa comunemente che se tu ci fossi stato, le cose sarebbero andate diversamente. Specialmente quella partita con la Russia. L’hai vista al tempo che idea ti sei fatto dopo quell’epilogo incredibile?
BW: Ovviamente c’era molto disappunto. Come erano andate le cose nel corso della partita avevano generato molta insoddisfazione. Anche perchè la sensazione era che la partita fosse abbordabile e si potesse vincere, ma nel corso della partita la nazionale USA commise sempre lo stesso errore di facilitare ed “aiutare” quella russa e sembrava quasi che loro ridessero la palla ai russi finchè non fossero stati in grado di eseguire la giocata risolutiva. Oltretutto, sai, il giorno di quell’incontro credo che il pensiero non fosse stato accarezzato da nessuno ma, ancora oggi mi domando, perchè non si è pensato di raggruppare l’intera squadra di UCLA, farla allenare da John Wooden, avere come team manager J.D Morgan, il miglior team manager di tutti i tempi, e saremmo tornati a casa con l’oro.
Tuttavia l’ho compreso solo anni dopo: a quell’epoca USA Basketball non era basato sui giocatori, sulla squadra, sul gioco, ma basato sulla burocrazia, il potere e su cosa questi burocrati volessero per loro stessi anzichè per i giocatori e per il movimento, aspetti che venivano completamente dopo i loro interessi. Tutto questo non rappresentava minimamente quella che era la mia filosofia di vita e quella che era stata la mia esperienza a livello giovanile. Oltretutto, poi, ero diventato parte dell’universo di UCLA, allenato da John Wooden, con la supervisione di J.D. Morgan, in un ambiente dove veniva dato enorme risalto all’importanza della commistione tra l’aspetto accademico e quello sportivo. Successivamente, ho fatto parte dell’NBA che è tutta incentrata sui giocatori e sull’importanza del gioco e non su cosa vogliono costruire per loro stessi alcuni burocrati, o altri tecnocrati disseminati da qualche parte del paese.

AW: All’epoca del draft, nel tuo percorso, è successo qualcosa che era abbastanza consuetudinario all’epoca, una specie di lancio della monetina. Successe a Kareem tra Phoenix e Milwaukee. Per te avvenne tra Philadelphia  e Portland con l’ABA che era disposta ad offrirti...
BW: Era disposta ad offrirmi la luna! Mi offrivano una parte della proprietà e mi hanno detto di scrivermi l’assegno da solo perchè i soldi non erano un problema.

AW: Ma se la monetina avesse premiato Philadelphia, cosa avresti fatto?
BW: Avrei fatto qualcosa di diverso. Non mi interessava giocare a Philadelphia. Sono un ragazzo di spiaggia californiano. Se i padri pellegrini fossero approdati ad Ovest, anzichè ad Est, sarebbe l’Est ad essere una riserva naturale. Non mi interessava, non ero cresciuto in un ambiente dettato dal business e non capivo quelle dinamiche. La mia famiglia, per l’appunto, non era così: mio padre era un dipendente pubblico ed insegnava musica nei weekend e mia madre era la bibliotecaria comunale. Le mie passioni erano lo sport, la squadra, la possibilità di giocare e poi le altre cose che mi interessavano che erano: andare in giro in bicicletta, andare in tour con i Grateful Dead (NDR- ci è voluta quasi mezz’ora di intervista, ma finalmente il buon Bill menziona di Greatful Dead!!! ;-)), ogni altro tipo di musica, leggere e poi avevo sviluppato questa passione forte per le piante e la vita all’aria aperta. Quindi, attorno a me si sviluppava questo mondo parallelo fatto di offerte che diventavano sempre più incredibili ed alla fine successe che nel 1974 firmai quello che allora era il contratto professionistico più redditizio della storia. Ma riflettendoci oggi, dopo quella firma, la mia qualità di vita peggiorò specialmente dopo aver trascorso 4 anni ad UCLA sotto la giurisdizione di John Wooden mi ero trasferito in una squadra di recente formazione, che non aveva mai vinto e non sapeva cosa voleva dire vincere e fondamentalmente l’unica cosa che mi interessava veramente di tutto quel processo negoziale per il mio contratto era che, dopo essere stato ad UCLA con John Wooden, volevo che fosse messo per iscritto che nessuno poteva dirmi quando radermi, tagliarmi i capelli o che vestiti mi era concesso indossare. Questo mi era consentito anche a casa con i miei, sebbene fossero molto rigidi ed avessero stabilito un lungo elenco di cose da fare e sopratutto non fare, ed al contempo, poi, c’era stata l’esperienza con John Wooden che era fuori dal comune: lui per te voleva essere come un padre e provava veramente gioia nel rapportarsi con noi sia come insegnante sia come coach e voleva veramente avere un impatto forte su di te in ogni modo possibile e questo non rispecchiava il mondo in cui eravamo inseriti.


AW: Il 1974 è segnato dal dolore. Hai giocato con una frattura da stress al piede destro.
BW: Nei miei primi due anni non ho quasi mai giocato. All’epoca le competenze medico-scientifiche non erano sufficienti per gestire le fratture da stress di un atleta che non si sarebbe fermato per infortunio. Tanto che a furia di giocare su questi infortuni ero arrivato ad un punto di non ritorno, convincendomi che fosse parte della normalità avere a che fare con il dolore. Ma io continuavo ad andare avanti, e poi ancora avanti e poi ancora finchè il dolore non divenne inspopportabile.

AW: Ad un certo punto del 74 finisci per essere coinvolto nella vicenda Patty Hearst (NDR: sempre per i più giovani, la vicenda Patty Hearst fu un caso di cronaca che scosse la California per via del rapimento di questa ragazza, ereditiera di una famiglia importante dell’Ovest, da parte di un commando criminal/rivoluzionario; la sorprendente evoluzione fu data dal fatto che l’ostaggio nel giro di pochi mesi aderì agli ideali violenti del commando per poi diventare una bandita a sua volta)
BW: Alcuni miei amici, Jack and Mickey Scott, erano a Portland e vivevano con me all’epoca del rapimento di Patty Hearst da parte dello SLA (NDR-il gruppo rivoluzionario sopra citato) e a causa di quel rapimento la tensione e gli omicidi ad LA stavano crescendo ed a questo punto vengono interpellati Jack e Mickey per fare in modo di proteggere Patty. Io non avevo alcuna idea che tutto questo stesse accadendo tanto che un giorno ero a Cleveland in una stanza d’albergo nel pomeriggio che mi preparavo per una partita e più che altro pensavo al fatto che avrei giocato ancora una volta con un piede rotto, e sappi che non è una buona idea giocare su un piede rotto, e pian piano perdi anche un po’ la percezione di cosa pensi sia vero o no ed ad un certo punto sento bussare alla porta ed è l’FBI e penso: ”Cosa può volere da me l’FBI a Cleveland, in un pomeriggio prima della partita?” Apro la porta e c’è un manipolo di tizi dell’FBI che mi chiedono dov’è Patty Hearst e io non ne ho idea e da quel punto tutto comincia ad esplodere perchè poi venni a sapere che Jack e Mickey sapevano che l’FBI stava stringendo il cerchio su di loro e io ero l’ultima persona con la quale Jack e Mickey avevano preso contatto. Insomma, ancora oggi non ho mai parlato in vita mia con Patty Hearst, sebbene Larry e Kevin (NDR- Bird e McHale) mi hanno sempre preso in giro con la battuta di “Patty nell’armadio”.

AW: Parliamo del team creatosi a Portland e l’unicità per la tua carriera di una figura come Maurice Lucas...
BW: Maurice Lucas è stato il miglior compagno di squadra mai avuto, Kareem l’avversario più tosto, Larry Bird il miglior giocatore con cui abbia mai giocato, ma Maurice Lucas come compagno è stato fondamentale anche perchè la cosa più bella che mi abbiano mai detto è che ho aiutato qualcuno a diventare un giocatore migliore, ecco, Maurice Lucas mi ha aiutato come nessun altro a diventare un giocatore migliore.

AW: Una cosa che mi è stata detta di recente è che la grande differenza tra l’NBA degli anni 80, inizio 90, tra i giocatori giovani e quelli più esperti è che ci sono cose che oggi i giovani non avrebbero mai fatto, e fanno oggi, per paura della reazione e paura di beccarsi dei pugni in faccia...
BW: Da Maurice Lucas! Persona con la quale nessuno, dico nessuno, voleva avere a che fare.

AW: In gara-2 a Philadelphia delle finali (NDR- Finali 1977), in gara 1 e 2 a Philly venite battuti abbastanza nettamente...
BW: Ci hanno steso, letteralmente steso. Ci avevano stracciato, ci avevano impartito una severa lezione ed eravano a terra con il morale, ma negli istanti finali Darryl Dawkins perde la testa e decide di inseguire e sfidare Bob Gross (NDR- guardia/ala dei Blazers) per una palla vagante. A conseguenza di quel diverbio e di quel confronto fisico, venne coinvolto Maurice Lucas. Ora, Maurice aveva due massime che era solito ripetere a seconda dei casi. Coach Wooden ne aveva un milione che sembravano essere sempre adatte al momento, mentre a Maurice ne bastavano due e le due cose che diceva sempre erano: ”Ci penso io”, oppure “Se questa cosa non va come sperato, ti giuro che ti ammazzo qua su due piedi!” e nessuno ha mai messo in dubbio la sua intenzionalità o la sua onestà nel dare seguito a ciò che diceva. Ora, quelle che erano le manifestazioni delle folle e specialmente quelle avversarie rendevano me più determinato e competitivo, ma nel caso di Maurice, tutti i tifosi avversari, i giocatori, gli allenatori odiavano letteralmente Maurice e questo lo rendeva pazzo ed ancora più motivato.

AW: Quindi, nel finale di gara-2 Maurice Lucas e Darryl Dawkins (NDR- curiosamente e sfortunatamente entrambi i giocatori ci hanno lasciato, il primo nel 2010 ed il secondo pochi mesi fa) si mettono in guardia per combattere ed i fratelli di Dawkins entrano in campo...
BW: Erano seduti a bordo campo vestiti con impermeabili di pelle e cappelli intonati tra di loro, sembravano usciti da Superfly (NDR- film di culto del genere blaxploitation caratterizzato dalla colonna sonora del superlativo musicista soul Curtis Mayfield) e non appena la rissa scoppia Darryl (che riposi in pace, alla fine era un bravo ragazzo, ma all’epoca era fondamentalmente un bullo) voleva mostrare a tutti che lui era il più grosso, cattivo brutto ceffo sul pianeta, ma non aveva idea di chi fosse Maurice Lucas, non sapeva affatto che Maurice Lucas sapeva combattere e non sapeva affatto che Maurice Lucas aveva messo al tappeto tutti anche perchè era al primo anno da professionista e lo era pure Darryl il quale veniva direttamente dall’high school e quindi c’era Darryl con questa figura imponente e statuaria che pensava che chiunque alla sua vista si sarebbe ritratto, facendosi prendere dalla codardia e dunque si piantò, inspirando e gonfiando i muscoli e Maurice rimase imperterrito davanti a lui, alzò un pugno e disse: ”Forza! Fammi vedere”, mentre Darryl pensava ancora che Maurice se la sarebbe data a gambe, mentre invece rilanciò la sfida e disse: ”Forza! Fammi vedere”...

AW: Riesci ad immaginare una scena del genere oggi...Sarebbe la fine del mondo ed era solo gara-2...
BW: Era solo gara 2 e non venne chiamato nemmeno un fallo tecnico! (risate) Per non parlare di una sospensione o una multa...

AW: Quindi, Maurice se la vede con praticamente le prime due file di tifosi di Philadelphia...
BW: Bravo, oltre all’intera famiglia di Darryl che ad un certo punto si scaraventa sul campo...

AW: Tornate a casa per gara-3 e cosa fa Moe Lucas durante la presentazione delle squadre, con il vostro palazzetto impazzito che cerca di riportarvi dentro la serie, sotto 2-0.
BW: La fanbase dei Blazers, la più grande fanbase della storia dello sport, vi prego di prenderne atto. Quando arrivammo lì c’erano 12666 spettatori stipati in un qualche modo nell’arena e considera che all’inizio facevano fatica ad arrivare a 7000 nelle serate buone, ossia quando arrivavano avversari come i Lakers, i Knicks o i Celtics, ma nel giro di pochissimo tempo i biglietti diventarono introvabili. Pensa che se Jerry Garcia (NDR- cantante, chitarrista, compositore dei Grateful Dead) veniva a vedere la partita lo facevano stare in piedi in un mezzanino a metà strada tra gli spalti e l’uscita. Non è stato possibile trovare un biglietto per una partita dei Blazers per i sucessivi 18 anni ed ancora oggi è il record per una squadra professionistica. All’epoca non c’erano cable tv e tv locali che mostrassero le partite e le mostravano in una sala di cinema in centro città con un sistema a circuito chiuso, dove, manco a dirlo, non c’erano regole per l’accesso. Insomma, questi fans scatenati erano ovunque. Il cronista radiofonico, il nostro amato Bill Schonely, annunciava il calendario delle partite via radio soprattutto quelle in trasferta ed all’epoca non c’era la sicurezza aeroportuale e così, al ritorno, c’erano 20-25-30 mila persone che ci prendevano d’assalto al rientro dalle partite in trasferta. Morale, siamo a gara-3 e la fanbase dei Blazers è carica a mille e quello che vogliono è il sangue (ride) e vogliono la pelle di Dawkins e di Dr.J e dei Sixers in generale.
I miei fratelli con i loro compagni dei Dallas Cowboys arrivano per la partita e vengono fatti accomodare dietro la panchina dei Sixers per controllare che Dawkins si comporti a dovere. Quindi, stanno facendo le presentazioni e mentre iniziano con i Sixers la confusione è pazzesca, poi presentano noi e il livello acustico sale ancora di più e quando viene presentato Maurice, che non so come abbia fatto a sentirlo, anzichè trotterellare sul campo, corre a tutta velocità dall’altra parte, verso la panchina dei Sixers, e si infila nel bel mezzo del cerchio dove sono radunati i Sixers e va dritto da Dawkins, gli mette la mano sulla spalla e gli dice: ”Darryl, andiamo!” e Darryl, lì, è andato in corto circuito.
A questo punto, considerate che Maurice in 10 giorni ha praticamente in solitudine deciso i destini delle Finals. Oltre ad aver rovinato la carriera di Darryl Dawkins, George McGinnis e Doug Collins, il quale nel corso della rissa di gara-2 si era messo in mezzo per sedarla e non aveva alcuna idea che, Dawkins nel bel mezzo della sua furia e nel bel mezzo di una fase dove stava facendo volare cazzotti ovunque anche verso Bob Gross e nessuno aveva la benchè minima idea che Bob fosse, grossomodo, come Mohammed Alì in termini di equilibrio, agilità, capacità reattiva, etc. e quindi il macello sta arrivando verso Bob e lui si sposta in modo da evitare la furia di Dawkins e ad essere colpito è Doug Collins il quale, lo si vede dalle immagini, ha giocato il resto della serie con un labbro aperto in due e dei denti in meno. Non avremmo mai immaginato che da quell’evento le cose sarebbero cambiate così tanto per noi.


AW: Bill, sapevo che le cose sarebbero andate così: siamo a 45 minuti di intervista e siamo ancora a Portland! Ci sono due rapide cose che voglio toccare ancora. Vinci il titolo a Portland e poi, più avanti finisci nei San Diego Clippers e poi i Los Angeles Clippers di proprietà di Donald Sterling, dai quali riesci a svincolarti nel 1984 quando, nel frattempo, eri diventato un giocatore part-time e andavi alla facoltà di Giurisprudenza di Stanford. Hai chiamato Red Auerbach e, a questo punto, come sei riuscito a convincere Donald Sterling a lasciarti andare e, di fatto, passare dalla peggior franchigia nella storia dello sport alla migliore...
BW: La migliore! I Boston Celtics sono la miglior franchigia della storia: hanno il numero più alto di titoli, di Hall of Famers, di All Time Teams, ecco, sono decisamente i migliori. Io ho fatto in modo che la trattativa iniziasse chiamando Red il quale ha praticamente trascorso un’estate intera di negoziazioni affinchè la trattativa andasse in porto, mentre Donald Sterling faceva di tutto per allungare i tempi trattandomi come se fossi il più grande giocatore di tutti i tempi, quando invece non ero riuscito più a giocare da diversi anni a causa degli infortuni ai piedi. Quando finalmente la trattativa si sblocca, vengo convocato al quartier generale di Sterling a Los Angeles e me lo ritrovo lì di fronte sul suo trono sfarzoso, dietro alla sua scrivania pacchiana che mi guarda con il suo sorriso da rettile e mi dice: ”Walton, se proprio vuoi andare a Boston potrai andarci, ma ad una condizione: ti devo un sacco di soldi in pagamenti posticipati (NDR- una sorta di liquidazione prevista negli accordi contrattuali dell’epoca), ebbene, se vuoi andare a Boston dovrai lasciare tutti quei soldi su questo tavolo”. Ora, questi soldi di cui parlava, sono stati oggetto di innumerevoli contese legali  e tutte le volte io avevo vinto in tribunale, ma ciononostante, quel giorno, allungai il braccio verso la scrivania, presi il foglio che fungeva da liberatoria per rinunciare a tutti quei soldi, con la più grande sicurezza di questo mondo e forse con la mia più grande spavalderia mai mostrata e firmai e non mi voltai mai indietro e presi la via della porta. Al contempo, però, mentre uscivo dalla stanza e mi incamminavo verso le vie di Los Angeles mi domandavo: chissà se tutti i soldi di Donald Sterling ed ora, pure tutti i miei soldi riusciranno mai a permettergli di ricomprarsi la sua anima?
Poi arrivai ai Boston Celtics e si poneva un enorme dubbio, perchè dovevo comunque passare gli esami medici ed in quel momento non c’era una speranza che io potessi passare quegli esami. Dunque Red Auerbach si presenta all’ospedale mentre i dottori stavano esaminando le mie lastre. Considera che in quel momento ero arrivato a Boston, lasciando tutto ciò che avevo in California e per nulla sicuro che sarei riuscito a fare parte della squadra e nel frattempo sento i medici che confabulano tra di loro e sento frasi come: ”Ma come possiamo dargli il via libera? Guarda i suoi piedi, le sue caviglie, le ginocchia, i polsi, la colonna e anche la faccia. Non c’è modo che questo ragazzo possa superare i test!”. A quel punto arriva Red, spalancando le doppie porte del reparto dove ero al Massachussetts General, mentre fumava il sigaro e si avvicina al nugolo di dottori e sbraita: ”Chi diavolo siete voi e cosa state facendo al mio giocatore?” e allora lo prendono da parte e gli dicono: ”Red, guarda qua: guarda i suoi piedi, guarda che faccia, non possiamo dargli l’idoneità” e Red sbraita di nuovo e dice: ”Zitti tutti! Qui sono io il responsabile!” e si fa largo a spintoni tra i medici e mi raggiunge mentre sono sdraiato sul lettino dell’ambulatorio dove ho fatto gli esami e mi guarda dritto negli occhi e mi chiede: ”Walton, puoi giocare?” e io dal basso lo guardo con uno sguardo a metà tra il triste ed il commosso, lo sguardo di un ragazzo che vuole avere solo un’altra chance di giocare e di far parte di qualcosa di speciale, di far parte della squadra e stare con i ragazzi e allora lo guardo dritto negli occhi e gli dico: ”Penso di sì, Red. Penso di sì, Red”.
A quel punto Red fa un passo indietro ed incrocia le braccia e a quel punto fa un tiro col sigaro che mi è sembrato interminabile per quanto fumo ha incamerato e gli ho visto per non so quanto trattenere il respiro ed in quel lungo istante potevi vedere tutte le congetture, tutte le macchinazioni e le riflessioni per poi espirare e ti giuro, Adrian, il fumo che è uscito era verde e credo che di riflesso nella luce opaca dei neon dell’ospedale ho visto tutti i trifogli e i leprechaun fuoriuscire da quella nube verde e ho intravisto la sagoma di Red in quella nube di fumo che con un sorriso smagliante girarsi prima verso i medici e poi verso di me e dire: ”Sta bene, è a posto, per me è idoneo...andiamo che abbiamo una partita da giocare!” e mi ha concesso di andare là fuori e vincere l’anello: sono la persona più fortunata della terra, Adrian. Grazie Red Auerbach, grazie Larry Bird, grazie Boston Celtics, grazie gente del New England e Celtic nation. Wow, che sogno che diventa realtà!

AW: Grazie Bill Walton ed il libro si chiama “Back from the Dead”. Grazie Bill per il tempo che ci hai dedicato e finirò di sicuro il libro nel quale c’è un sacco di ispirazione che va oltre il gioco, ma parla più della vita, in realtà.
BW: "Rifletti un attimo su una cosa: ho trascorso metà della mia vita da adulto in un ospedale e l’altra metà su un aereo, su una macchina a noleggio, in un albergo e per gran parte di essa non ho mai pensato che sarei stato libero dal dolore. Pensavo che non sarei mai stato liberato da dolore e pensavo che non sarei mai stato felice ed innamorato, ed invece sono senza dolore e sono felice ed innamorato. Non posso ringraziare abbastanza mia moglie Laurie, te e l’NBA per avermi dato l’opportunità di inseguire e realizzare il mio sogno. Grazie Adrian".

AW: Grazie Bill.

Minuto 48:20

 

Intervista Bill Walton (traduzione)   di Marcello Ciozzani   |   Pubblicato il 05/04/2016
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